Le terre coltivabili sono nelle mani di una manciata colossi dell’agroindustria. La conferma arriva da uno studio della International land coalition, ovvero una coalizione di 250 organizzazioni intergovernative e della società civile che collaborano con Oxfam.
I dati parlano del 70% delle aree coltivabili controllato da appena l’1 per cento delle aziende agricole del Pianeta. L’unità corrisponde infatti alle più influenti corporation, mentre il restante 30% è suddiviso tra le 608 milioni di aziende agricole del globo – alle quali, ovviamente, bisogna sottrarre quell’1 per cento. Ma solo il 12% di questa ‘torta’ va alle realtà più modeste. Vediamo ora perché.
Ad avere la peggio sono i piccoli produttori, che non arrivano ai due ettari coltivabili e rappresentano l’84% del totale delle aziende di settore. I dati più allarmanti arrivano dagli Stati Uniti “dove 980mila coltivatori non raggiungono i cinquemila dollari annui di fatturato, mentre l’80 per cento del valore di produzione va al 7% di grandi proprietari” scrive Lifegate.
Quando è iniziata questa svolta fortemente capitalista? Negli anni Ottanta, anni in cui la disuguaglianza tra le proprietà è diventata abissale, dopo un florido periodo di equa distribuzione e lotta alla monopolizzazione. E pensare che anche nell’Unione Europea “la dimensione media di una tenuta è quasi raddoppiata nell’arco di cinquant’anni, passando dai 12 ettari degli anni Sessanta ai 21 del 2010. Oggi, la metà delle aree coltivate è controllata dal 3 per cento dei proprietari” si legge nello stesso articolo pubblicato su Lifegate da Valentina Neri.
Anche il cambiamento climatico ha un ruolo da protagonista. Le monocolture industriali hanno un impatto molto pesante sull’ambiente per le emissioni di CO2. Ci saranno ripercussioni anche sulla fertilità dei terreni in alcune aree geografiche, tra cui quelle del Terzo Mondo. Un circolo vizioso da cui sarà sempre più difficile uscire.
L’attuale situazione, in cui i colossi dell’agribusiness stanno rosicchiando ampie fette di terreno, è consolidata dalla finanziarizzazione del cibo. Le materie prime sono merci e come tali vengono trattate dal mercato, nonché gestite dai manager che si trovano a migliaia di chilometri di distanza, così come i fondi d’investimento che controllano la produzione. Il sodalizio tra Bayer e Monsanto ne è un esempio, ma il rischio per la qualità della vita, dell’occupazione e per la sopravvivenza del pianeta è alto.